Mia madre è un fiume: i Premi del 2011

Mia madre è un fiume: i Premi del 2011

19/03/12

Case d'autore: articolo de Il Centro del 18 marzo 2012

Donatella Di Pietrantonio, scrittrice tra natura e borgo

«La mia Penne è memoria»


 In una giornata incerta tra il sole nuovo di marzo e le freddure residuali di febbraio, la scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio ha aperto a “Case d’Autore” le porte della propria abitazione, in una Penne dalla luce quasi metafisica. Davvero metafisico lo spazio che dalle mura del quartiere Corea, popolare e inaugurale la bellezza del centro storico, giunge ad animare casa di Donatella, forse perché di quell’antica abitazione è stato conservato tutto, ai fini di non lasciare che il respiro antico tra spazio privato e pubblico andasse perduto. Una metafisica del colore bianco, dominante, di un’accoglienza quasi uterina, di una luce intensa ma pacifica, di legni e libri e accorgimenti minimi ma sostanziali di chi scrive e riscrive ogni giorno il proprio stare al mondo. Fuori, a strapiombo, l’Abruzzo aspro di altezze, dolce di declivi, giardini e orti che ci scrutano mentre iniziamo a chiacchierare.
 Signora Di Pietrantonio, lei è nata e ha trascorso l’infanzia ad Arsita, nel teramano, ma vive e lavora a Penne. Ci parli un po’ di questi spostamenti, di come hanno influenzato la sua domesticità.
 
«Le varie case rappresentano in realtà delle tappe di vita, di evoluzione della mia storia per cui la prima casa è stata la casa rurale in un piccolo borgo pedemontano, ad Arsita; lì vi era un rapporto strettissimo tra la casa e la natura, tanto ch’essa sembrava bussare alla porta con una vera e propria pressione fisica, per cui da bambina vivevo molto la dimensione della casa-riparo. All’età di dieci anni c’è stato il trasferimento a Penne in casa colonica che abbiamo ristrutturato proprio come si usava negli anni ’70, mettendo le cosiddette “comodità”, all’insegna del principio di funzionalità ma a scapito della conservazione. Dopo varie vicissitudini come l’abitare in affitto - confesso un’esperienza davvero asfissiante - ho deciso unitamente al mio compagno di acquistare una vecchia casa nel centro storico di Penne, da ristrutturare. Per me questa è stata proprio l’idea di casa: piena di storia, dove sentire, accogliere l’anima delle generazioni che l’hanno abitata».
 Un quartiere antico il cui ingresso, ho notato arrivando, è deturpato da un enorme ripetitore telefonico...
 
«Quello delle antenne è stato un trauma perché quando io ho preso questa casa c’era proprio l’intenzione di ristrutturarla rispettando il genius loci, le anime che sentivo in questo luogo. In questi dodici anni l’unico intervento è stato l’installazione di queste antenne che stanno rendendo il quartiere la San Silvestro di Penne! Una violenza insanabile. Stiamo cercando di darci da fare attraverso un comitato di cittadini, ma è dura farsi ascoltare. Viviamo al fianco di un intervento non voluto ma imposto. Tra l’altro Penne è stata inserita da poco nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, e questo contrasto è davvero scandaloso. Lo vivo, lo viviamo come un colpo al cuore, il tradimento di una storia, di una cultura».
 Scrivere è abitare per lunghi periodi della propria vita una pagina e forse questi sono i periodi nei quali, alle prese con noi stessi, viviamo più intensamente. Cosa significa per lei “abitare una pagina”?
 
«Abitare una pagina è un’emozione che evolve man mano che la pagina si riempie. All’inizio c’è l’angoscia della pagina bianca e quindi il misurarsi con la possibilità e la paura di non saperla riempire. C’è questo mistero, un grande punto interrogativo davanti a te. Come l’abiterò...? Ma poi scocca la scintilla, da alimentare, curare, un fuoco che deve divorare la pagina stessa. Pian piano cresce la sensazione di riempimento che è completamento di se stessi, si arriva al fondo della pagina stremati, soprattutto io vi arrivo stremata, considerato il mio non essere una cosiddetta scrittrice “torrenziale”... E questo accade al di là del tempo a disposizione: riesco a indugiare mezza giornata su tre righe!».
 Mia madre è un fiume (Eliot 2011) è stato il suo felicissimo esordio letterario. La delicatezza del dettato, la volontà di evocare il passato di un Abruzzo quasi mitico, rendono la sua prosa intensamente lirica. Lì il mondo sembra finire nel cerchio imperfetto di una madre malata che sta perdendo la memoria. Possiamo dire che senza la costanza della presenza femminile, una casa perde ogni memoria di se stessa, dunque la propria ragion d’essere?
 
«Sì. La domesticità è una dimensione prettamente femminile, al di là di tutte quelle che sono le ideologie “paritarie” di cui anche io mi sono nutrita, soprattutto in gioventù: tengo comunque a conservare differenze tra i generi nelle quali rientra la pertinenza della domesticità a una dimensione squisitamente femminile, materna. Ti riporto un esempio: in queste case del centro storico vi sono delle stanze piccole con le volte a botte e tale morfologia mi commuove, perché avverto tale modalità di racchiudere lo spazio come uterino, una dimensione totalmente altra e originaria».
 Il “felice deposito celeste / è una mobile casa della vita”, scriveva il poeta russo Mandel’stam. Come interpreta questi versi?
 
«Sono dei versi molto suggestivi, mi fanno andare contro me stessa, in qualche modo evocano in me il rovescio di tutto ciò che ho affermato sinora sul rapporto tra casa e memoria: mi spingono verso il cielo, a considerare la dimensione reale della casa come del tutto transitoria ed effimera. Mi fanno pensare che quando non c’è la possibilità di una propria dimora, bisogna rimettersi in gioco in una dimensione più universale, un essere che va oltre il contingente dell’abitazione in muratura e ci faccia sentire abitanti celesti».
 Quesito inevitabile: la casa di quale scrittore a lei caro vorrebbe visitare e/o abitare?
 
«Io non vorrei più visitare le case degli scrittori perché le poche volte in cui l’ho fatto ho avuto delle delusioni cocenti! Ad esempio quando sono andata a Buenos Aires sulle tracce di Borges, scrittore che amo tantissimo e che leggo incessantemente, sono rimasta addolorata nel trovare la sua casa, nel quartiere che lui ha descritto con un amore davvero commovente, trasformata in una specie di ristorante per matrimoni. Non comprendo nemmeno il trasformare la casa dell’autore in una specie di museo/mausoleo, perché trovo quella conservazione una celebrazione, certo, ma d’uno spirito devitalizzato... Preferisco non veder più le case degli scrittori, a meno che non siano viventi».
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- Federica D’Amato

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Nel nome della madre: articolo del Corriere della Sera