Mia madre è un fiume: i Premi del 2011

Mia madre è un fiume: i Premi del 2011

23/02/12

'Grazie ai miei piccoli pazienti imparo a indagare i sentimenti'

Articolo de La Repubblica del 22 febbraio 2012 di Fulvio Paloscia pag. 9 sezione Firenze

'Grazie ai miei piccoli pazienti imparo a indagare i sentimenti'

 "Mia madre è un fiume" è stato lanciato come il miglior romanzo d' esordio degli ultimi anni dopo La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. L' autrice, Donatella Di Pietrantonio, abruzzese over 40, ospite oggi con Sandra Teroni di "Leggere per non dimenticare" alle Oblate (17.30) per presentare il libro edito da Elliot, allontana da sé facili riferimenti o paragoni: «Il mondo dell' editoria ha risvolti di marketing che mi sfuggono. In Italia si pubblica troppo e il superfluo fa scattare la ricerca di una voce genuina, autentica in un brusio assordante non sempre di qualità». Di Pietrantonio la sua voce l' ha trovata senza abbandonare il lavoro di dentista per bambini. «I due aspetti della mia vita si influenzano in modo decisivo. La medicina ti fa avvicinare le persone in una sfera molto intima e per fare questo - soprattutto con i piccoli pazienti - occorre una forte dose di empatia. E la scrittura, si sa, ha molto a che fare con la profondità dei sentimenti, delle emozioni umane». Il romanzo affronta il tema del rapporto tra madre e figlia dal punto di vista della malattia: la donna anziana assiste alla cancellazione progressiva e implacabile della memoria. Spetterà alla figlia ricostruirla, perdendo però anche l' ultima occasione di chiarimento riguardo ad un legame nato storto: «Cerco sempre di considerare le situazioni nella loro complessità - spiega Di Pietrantonio - in questo caso la patologia neurodegenerativa La copertina del libro colpisce la madre e si abbatte anche sull' intero nucleo familiare. A farsene carico, come sempre accade,è la figlia più grande, proprio colei che ha vissuto un rapporto conflittuale con la donna». A fare da sfondo alla storia di questo labile nodo, la Storia di una comunità: quella contadina d' Abruzzo (lì è nata e vive la scrittrice) con le sue tradizioni, il suo modo di pensare la femminilità come sacrificio necessario: «Nelle mie intenzioni iniziali non c' era la volontà di porre in dialogo la dimensione personale con quella sociale né di affrontare il tema delle radici. Ma via via che scrivevo il romanzo e delineavo i personaggi, questi elementi si sono imposti con forza, soprattutto nel raccontare la madre, retaggio di una cultura arcaica». Bando ad ogni compiacimento: lo stile della Di Pietrantonio è essenziale, privo di sperimentalismi esibiti, «anche se in realtà ero partita in senso totalmente opposto.È stato un percorso lungo e tortuoso che mi ha portato alla sottrazione, ad una lingua asciutta, ridotta all' osso, quella cioè che ritengo aderente al territorio, ai personaggi di questa piccola comunità rurale dell' Abruzzo pedemontano. Uno stile più ricco avrebbe tradito la loro essenza».

FULVIO PALOSCIA




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14/02/12

Donatella Di Pietrantonio presenta il suo libro a Firenze

Per il ciclo d’incontri "Leggere per non dimenticare" a cura di Anna Benedetti, mercoledì 22 febbraio 2012  Donatella Di Pietrantonio presenta il suo libro "Mia madre è un fiume" (Ed. Elliot, 2011) alla Biblioteca delle Oblate, in Via dell’ Oriuolo 26, a Firenze alle ore 17.30. Introduce Sandra Teroni.
Il racconto poetico e indimenticabile di un “amore andato storto da subito” tra una figlia e una madre che “era troppo educata al sacrificio per permettersi il piacere di stare con la sua creatura”. Un romanzo d’esordio, in cui le vicende personali si uniscono alla storia corale di un’Italia contadina, ritratta dagli anni di guerra fino ai nostri giorni.
Info: http://www.leggerepernondimenticare.it/

06/02/12

Il Centro di lunedì 6 febbraio 2012: Un racconto di Donatella Di Pietrantonio

La cena della neve
di Donatella Di Pietrantonio
  La scrittrice di Penne, autrice del romanzo “Mia madre è un fiume”, ha scritto per Il Centro il racconto che ha per protagonista un uomo single.

Dopo giorni di eccitanti quanto catastrofiche previsioni meteorologiche, mercoledì mattina anche il vicino mi ha mostrato orgoglioso il suo IPhone tre o quattro, adesso non ricordo, che annunciava per le ore ventidue neve su Penne. Sicuro? gli ho chiesto. Sicuro, ha risposto, questo non sbaglia. Fai le provviste, mi ha consigliato, il freddo polare durerà fino alla metà di febbraio e potrebbero scarseggiare i rifornimenti ai supermercati. A mezzogiorno sono andato a fare la mia consueta misera spesa di single e ho notato gli scaffali sorprendentemente vuoti, a dispetto della crisi che morde. Pasta, farina, zucchero e caffè decimati, come in tempo di guerra. In compenso i carrelli in fila alle casse erano per l’appunto pieni di pasta, farina, zucchero e caffè, i fondamentali. Sono uscito un po’ turbato, con il mio shopper leggero. Alle dieci di sera la neve ha disubbidito alle previsioni e si è rifiutata di cadere. Dopo aver concesso il quarto d’ora e anche i quaranta minuti accademici ho aperto la finestra della cucina e tirato dei sassolini contro il vetro dirimpettaio del vicino, ma ha finto di non sentirmi. Forse stava consolando il suo IPhone umiliato.

Il venerdì mattina ha iniziato quando è parso comodo al cielo che si è graziosamente curvato su di noi per sfarinarci addosso riserve accumulate a lungo. Allentata la pressione mediatica inibitrice, l'evento ha avuto luogo e sèguita, incessante. Nevica sottile, a mulinelli di fiocchi leggeri e svogliati di posarsi sul manto già steso. Nevica come all'inizio dei tempi, con uguale indifferenza. Esco con il cappuccio sulla testa, non amo gli ombrelli. Ogni tanto le ciglia intercettano un fiocco e vedo attraverso cristalli stellati che presto si sciolgono e diventano mie lacrime. In salita il respiro si fa frequente, per la fatica di vincere l'attrito dei piedi con questo bianco spessore.
Le piazze deserte sembrano immense, amplificate dal silenzio. Unico suono è il brivido quasi di polistirolo compresso sotto le suole dei miei scarponi. Non incontro bambini che giocano. Sopra i comignoli si alzano i fumi dei fuochi degli uomini al riparo nei loro complessi rifugi. M'intenerisco di loro nella solitudine dei miei passi. Guardo indietro, le orme profonde che nel giro di qualche ora saranno livellate dalla precipitazione continua. Saprò solo io che sono stato qui. M'incammino verso casa in questo crepuscolo dilatato dalla vastità del bianco. Dentro è già buio e freddo. Accendo tutto quello che posso, compresa la musica. Alla finestra la solita tenda mobile di fili bianchi tesi dal cielo invisibile, a momenti più decisi, o più esitanti. A tratti fatico a scorgere il muro di fronte. E tuttavia spero che non smetta, spero di restare compreso in questo fenomeno straordinario, chiuso nel mio guscio di muratura.
In fondo non va così male. La dispensa abbonda di pacchi di pasta semivuoti, qui un etto di mezze maniche, là una manciata di fusilli, li unirò e preparerò un minestrone con certe verdure avanzate in settimana che già appassiscono nel cesto. E' triste cucinare per uno, soprattutto per se stessi. Certi giorni pesco il tonno con la forchetta direttamente dalla sua scatola di latta, sul tavolo nudo della cucina, poi pulisco con la spugna le gocce d'olio cadute sul ripiano in finto marmo. Vivere soli riduce i bisogni a quelli strettamente essenziali. Ma oggi no, ci vuole qualcosa di caldo, in onore della neve. Mi appresto, con la scarsa attitudine dei maschi costretti che le mamme abruzzesi non hanno formato all'autonomia. Sbuccio due patate e mi resta il solito dubbio su questo verdino un po' sinistro scoperto dalla lama. Buttare o cuocere? Senza patate che minestrone sarebbe? Allora cuocere, comunque. Suona il campanello. Una rapida occhiata circolare sul disordine stagionato e irrecuperabile, almeno nel breve periodo, poi mi chiudo alle spalle la porta della cucina e vado ad aprire disinvolto. Eccolo qui, il vicino dell'IPhone che si scotta le mani intorno a un piatto colmo di polenta fumante al sugo di salsiccia. Mia moglie l'ha appena fatta, dice. Poi getta uno sguardo al vuoto dietro di me e chissà che impressione gli fa. Anzi, si illumina, vieni a sederti con noi che facciamo prima. Non ti scordare le chiavi, però. Mi accerto di averle in tasca e lo seguo mentre gira sui tacchi ed esce, due passi contati ed entriamo da lui, che ha lasciato aperto.
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6 febbraio 2012


01/02/12

Silvia Marfisi: Il racconto che cura

(www.aracneeditrice.it)
La narrazione autobiografica come terapia possibile nella malattia di Alzheimer 

(tratto da "Psicologia clinica e psicoterapia 17 - Collana diretta da Rosario Di Sauro)

L’intera attività terapeutica è in fondo questa
sorta di esercizio immaginativo, che
recupera la tradizione orale del narrare
storie; la terapia ridà storia alla vita.
James HILLMAN
“Le storie che curano”

 pp.17/18

(... ) C’è un romanzo di recente uscita (Mia madre è
un fiume, Elliot, Roma 2010), dell’esordiente Donatella Di
Pietrantonio, la cui narrazione in seconda persona mette
mirabilmente in luce l’atto di ricucire, nella malattia di
Alzheimer, l’orditura di una tela squarciata. La narratrice
si rivolge alla madre malata come a un’interlocutrice a cui
bisogna ricordare, attraverso le piccole cose quotidiane,
chi è stata, chi è e come si muove il mondo attorno a lei:
“Oggi facciamo un lavoro insieme. Niente di difficile, non
ti agitare. Lo so che ti piace di più quando ti racconto,
ma in camera tua c’è un pò di confusione nei tiretti del
comò, ci conviene sistemarli (. . . ) Prepariamo il pranzo,
ho comprato i taiaticci. Lo sai che non sono capace, li ho
presi al negozio di pasta all’uovo. Chiacchierando sgusciamo
le fave che papà ha raccolto stamattina. Belle fresche,
già dopo un giorno perdono il sapore (. . . ) Attenta qui
mettiamo le bucce e là i chicchi, in quel piatto. Soffriggo
nell’olio una cipolla novella tagliata sottile e aggiungo i
legumi. . . ” (pp. 53, 167). Ecco questo dialogo costante dà
proprio l’idea di rappezzare, rimettere insieme i deboli fili
che seppur flebilmente tentano di ristabilire nella mente
slabbrata del malato di Alzheimer, legami significanti e
connessioni affettive. (...)

Nel nome della madre: articolo del Corriere della Sera